Energia Rinnovabile

La CO2 diventa roccia per frenare il riscaldamento globale

co2

L’idea di trasformare la CO2 in roccia per frenare il riscaldamento globale non è una novità, ma se anziché riuscirci in migliaia di anni lo si fa in tempi record ecco che la cosa si fa davvero interessante. La notizia arriva dall’Islanda. Ecco di cosa si tratta.

Iniettare la CO2 nel sottosuolo e trasformarne il 90% in minerali nel giro di soli due anni. Sono questi gli eccellenti risultati raggiunti dal progetto Carbfix in Islanda, uno dei venti finalisti candidati ad ottenere il prestigioso Keeling Curve Prize. Il progetto, che va avanti ormai da diversi anni, sfrutta i basalti islandesi come volume geologico per lo stoccaggio del gas, una scelta che si è rivelata efficace e sicura e che apre nuove prospettive per la lotta al riscaldamento globale.

I basalti d’Islanda

Gran parte dei progetti di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica sfruttano le rocce sedimentarie come volume serbatoio per l’immagazzinamento del gas che penetra nei pori della roccia e può dissolversi nelle acque sotterranee o reagire con la roccia incassante formando minerali carbonatici. Tuttavia il processo richiede migliaia di anni, rendendo questa soluzione sfavorevole per mineralizzare la CO2 abbastanza velocemente da soddisfare la potenziale domanda o da evitare che eventi geologici improvvisi come i terremoti possano provocare fughe di gas.

Una soluzione a questo problema arriva dalle rocce magmatiche basiche come i basalti che, oltre ad essere ampiamente diffusi su tutto il Pianeta, contengono alte concentrazioni di calcio e magnesio, ioni che possono reagire facilmente con la CO2 producendo minerali di calcite, dolomite e magnesite. Con l’obiettivo dunque di testare la capacità di immagazzinamento dell’anidride carbonica da parte di alcuni dei basalti più famosi del mondo il sito della centrale geotermica di Hellisheiði in Islanda è diventato il cuore pulsante del progetto Carbfix.

Il team, guidato dal Reykjavik Energy, ha ideato il sistema che dissolve la CO2 catturata dal processo industriale nelle acque reflue dell’impianto, iniettando poi il tutto a centinaia di metri di profondità nelle rocce basaltiche. Alla fine del 2018, il sistema aveva catturato e stoccato circa 66.000 t di gas (sia CO2 che H2S), ovvero oltre il 40% delle emissioni generate dalla centrale.

Secondo i risultati ottenuti, oltre il 90% del gas iniettato si è trasformato in minerale nel giro di un paio d’anni. Un processo estremamente rapido ma con qualche punto critico, l’acqua innanzitutto: per l’iniezione di una tonnellata di anidride carbonica ne servono 25 di acqua. Il metodo, inoltre, va testato anche in altri basalti del Pianeta, piccole variazioni composizionali della roccia ospite possono portare a ben differenti tassi di mineralizzazione. Di certo i rapidi tempi di stoccaggio dei gas iniettati candidano i basalti islandesi come uno dei migliori serbatoi naturali al mondo.

Un processo naturale

Grazie alle loro proprietà chimiche, rocce basiche e ultrabasiche come basalti e peridotiti sono l’ambiente ideale per i processi di carbonatazione naturale. È stato stimato per esempio che l’alterazione dei basalti presenti sulle terre emerse del nostro Pianeta, dovuta agli agenti atmosferici, contribuisce per il 30% alla rimozione naturale della CO2 dall’atmosfera. Allo stesso modo in natura la mineralizzazione della CO2 è un processo che avviene costantemente in ambienti vulcanici.

I basalti dei sistemi vulcanici e geotermici sottomarini, per esempio, ricevono costantemente grandi quantità di anidride carbonica dal magma che degassa in profondità. È il caso delle dorsali oceaniche, dove la circolazione idrotermale coinvolge il primo km di crosta oceanica con una conseguente interazione CO2-acqua-basalto: soltanto in questo spazio si riescono a mineralizzare circa 40Mt di anidride carbonica all’anno. Proprio in Islanda, porzione emersa della dorsale medio atlantica, è stato stimato che un basalto fresco può immagazzinare naturalmente oltre 100 kg di CO2 per metro cubo.

Sulla base di questa stima, la capacità teorica di stoccaggio lungo le dorsali oceaniche (ammesso che la composizione del basalto non vari grandemente) e dell’ordine di 100.000 – 250.000 Gt di CO2, diversi ordini di grandezza in più rispetto alla quantità di anidride carbonica che ogni anno viene liberata a livello globale dalle attività umane (circa 36,8 Gt nel 2019). Teoricamente dunque le capacità di immagazzinamento della CO2 da parte dei basalti oceanici e terrestri sono enormi e con la tecnologia giusta, potrebbero essere una delle soluzioni determinanti per lo stoccaggio definitivo dell’anidride carbonica e per la lotta al riscaldamento globale.

Prossimo passo: sottrarre CO2 all’atmosfera

Ad oggi i sistemi di cattura e stoccaggio della CO2 esistenti (Carbon Capture and Storage, CCS) riescono a processare circa 40 Mt di gas ogni anno e sono applicati principalmente a determinati processi industriali. Per rispettare l’Accordo di Parigi e contenere la crescita della temperatura media globale a 1.5°C, bisognerebbe però catturare e stoccare almeno 190 Gt di anidride carbonica. Una quantità enorme che richiederebbe un aumento del numero di impianti CCS esistenti di almeno 2.500 unità entro il 2040, ma soprattutto la cattura della CO2 direttamente in aria. Ciò è possibile attraverso i sistemi di cattura diretta dell’aria (Direct Air Capture, DAC), che filtrano direttamente l’aria attraverso un solido o un liquido capace di rimuovere selettivamente l’anidride carbonica sfruttando processi di assorbimento e adsorbimento. Combinando i due sistemi ed installandoli nei pressi di un serbatoio basaltico, esattamente come si sta sperimentando nel progetto Carbonfix, sarà possibile creare siti di stoccaggio in grado di rimuovere grandi quantità di CO2 dall’atmosfera. Tuttavia ad oggi le tecnologie di tipo DAC sono abbastanza poco mature (al momento la capacità di filtraggio è dell’ordine delle migliaia di t di CO2 per anno) e anche piuttosto costose (da 90 a 900$ per tonnellata di CO2), si tratta infatti di tecnologie estremamente energivore. Ricercatori e aziende, intraviste le grandi potenzialità di queste tecnologie, si stanno impegnando per renderle più competitive ed operative in un immediato futuro.

Fonte: Rivistanatura.com